Lo svezzamento (o weaning) dalla ventilazione meccanica è l’obiettivo che ci poniamo in tutti i pazienti che iniziamo a ventilare. E’ però importante giungere allo svezzamento dalla ventilazione meccanica nei tempi e nei modi più efficaci.
Oggi vorrei presentare il caso del signor Paolo, un uomo di 68 anni ricoverato in Terapia Intensiva per una polmonite che ha complicato un’emorragia cerebrale. Dopo un paio di settimane dal ricovero è tracheotomizzato, apre gli occhi ed a tratti è in grado di dimostrare contenuti di coscienza. E’ ventilato in NAVA (Neurally Adjusted Ventilatory Assist), una modalità di ventilazione assistita guidata dall’attività elettrica diaframmatica modulando durante la giornata il livello di assistenza inspiratoria. Ha una PaO2 di 98 mmHg con PEEP 8 cmH2O e FIO2 0.5, è normocapnico (PaCO2 38 mmHg) e sempre moderatamente tachipnoico (25-35 respiri/minuto) con volume corrente spesso tra i 300 ed i 350 ml.
Poniamoci due domande: 1) è ora di iniziare lo svezzamento dalla ventilazione meccanica? 2) Se sì, come procedere?
Quando iniziare lo svezzamento dalla ventilazione meccanica.
Il primo punto è capire se un paziente può essere preso in considerazione per il weaning. Se non ci sono le condizioni per poter pensare allo svezzamento, non ci si deve nemmeno pensare. Non ritengo sia corretto pensare che il weaning inizi nel momento in cui si intuba un paziente. Pensiamo, ad esempio, ai casi di trauma cranico grave, di ARDS grave, di shock settico con insufficienza multiorgano: nella fase più acuta il weaning deve essere dimenticato e ci si deve concentrare sul trattamento della fase acuta della malattia.
Non si deve però indugiare quando si intravedono le condizioni per poter eventualmente sospendere la ventilazione meccanica. E queste condizioni ci sono se un paziente durante la ventilazione meccanica riesce a mantenere una sufficiente ossigenazione del sangue (una saturazione arteriosa non inferiore a 90% con PaO2/FIO2 > 150 mmHg ed una PEEP non superiore ad 8 cmH2O), senza segni che possano far ipotizzare un eccessivo carico o debolezza dei muscoli respiratori (la frequenza respiratoria è inferiore a circa 35/min, il volume corrente è di almeno 300-350 ml e non vi è acidosi respiratoria). Oltre a questo evidentemente dobbiamo considerare che non vi siano segni di shock o gravi aritmie e che non vi sia in corso una sedazione con un paziente non risvegliabile.
Dobbiamo poi valutare se stiamo decidendo fare un’estubazione o se pensiamo di fare respirare spontaneamente un paziente tracheotomizzato: solo nel primo caso sono indispensabili la presenza di tosse e deglutizione efficaci ed una ridotta quantità di secrezioni bronchiali.
Quindi cosa concludiamo per il signor Paolo? Io non ho avuto dubbi, ed ho scritto sulla cartella clinica come programma della giornata una sola parola: “weaning”.
Come si fa il weaning.
Semplificando, “fare weaning” vuol dire far respirare il paziente da solo e vedere cosa succede. Nulla di più, nulla di meno. Ritengo inutili perdite di tempo atteggiamenti più prudenti, come ad esempio la progressiva riduzione di giorno in giorno del livello di assistenza respiratoria fino ad arrivare a pochi cmH2O di pressione di supporto.
Si valuta la capacità del paziente di respirare da solo con un “trial di respiro spontaneo“, che può essere effettuato in 3 modi diversi, tra loro alternativi: 1) si distacca il paziente dal ventilatore e lo si mette a respirare con un supplemento di ossigeno e l’umidificazione dei gas (tubo a T); 2) si lascia il paziente connesso al ventilatore CPAP < 5 cmH2O; 3) si ventila il paziente con un basso livello di pressione di supporto (ad esempio 5 cmH2O) senza PEEP.
I tre metodi non sono equivalenti. Non esistono evidenze chiare per convincerci che uno dei tre approcci sia migliore degli altri due, deve essere il buon senso e l’esperienza clinica che ci guida nella scelta. Posso dire quello che faccio io, a puro titolo di esempio e di contributo alla discussione: nel paziente trachetomizzato preferisco il tubo a T, magari preceduto da un breve periodo di CPAP, giusto per capire se è in grado di sopportare la respirazione spontanea; nel paziente intubato o utilizzo il tubo a T oppure scelgo una pressione di supporto di 5 cmH2O se ho un paziente fragile con elevato spazio morto (filtro HME) e/o un tubo tracheale di piccolo diametro.
Qualunque metodo si scelga, è importante definire degli obiettivi chiari per il trial di respiro spontaneo. Il trial sarà superato se per 30 minuti non si saranno presentati i criteri di fallimento (vedi sotto). La durata del trial di respiro spontaneo è importante: nel mio reparto facciamo suonare una sveglia al trentesimo minuto dall’inizio del trial per ricordarci che in quel momento dobbiamo prendere una decisione (e scriverla sulla cartella clinica), soprattutto se il paziente è intubato. Bisogna evitare di dimenticarsi il paziente con il tubo a T perchè questa modalità di respirazione è piuttosto faticosa e se si prolunga si può generare fatica anche in pazienti estubabili, ritenere erroneamente fallito il test e quindi mantenere inutilmente la ventilazione meccanica.
Un paziente potrà essere estubato (o il respiro spontaneo proseguito nei pazienti trachetomizzati) se si termineranno i 30 minuti di trial di respiro spontaneo senza ipossiemia (SaO2 > 88-90 % con ossigenoterapia), se non si sviluppa ipercapnia ed acidosi, se la frequenza respiratoria è inferiore a 35/min (circa), se il paziente non lamente dispnea e non utilizza i muscoli accessori della ventilazione (oltre a mantenere una stabilità cardiocircolatoria). Se il trial di respiro spontaneo fallisce, bisogna riprendere una buona ventilazione meccanica adeguando il livello di assistenza respiratoria alle necessità del paziente. E il giorno dopo si riproverà il trial di respiro spontaneo, sempre, ostinatamente (se persistono le condizioni, ovviamente).
I criteri di fallimento del trial di respiro spontaneo devono essere elastici e devono essere adattati sia alle caratteristiche dei singoli pazienti che alle strategie che si attueranno dopo l’estubazione (ad esempio la ventilazione non-invasiva).
E il nostro Paolo come è andato a finire? Il primo giorno in cui è stato deconnesso dal ventilatore è rimasto 12 ore in respiro spontaneo, venendo ricollegato solo la sera per la comparsa di tachipnea. Anche il secondo giorno è stato trascorso quasi tutto in respiro spontaneo, richiedendo nella notte un periodo di pressione di supporto. Dal terzo giorno è rimasto in respiro spontaneo ininterrottamente per una settimana ed ora è pronto alla dimissione in riabilitazione. In questa fase è opportuno evitare periodi di ventilazione meccanica “preventivi”, fatti a scopo pseudo-caritatevole: prolungheremmo inutilmente il periodo di ventilazione, senza capire se il paziente ne potrà fare veramente a meno.
Per concludere, possiamo sottolineare i punti più importanti del weaning dalla ventilazione meccanica:
- tutti i pazienti devono essere valutati tutti i giorni per vedere se possono essere considerati per lo svezzamento (e bisogna togliere il più presto possibile i sedativi per dare loro questa opportunità!!!);
- quando un paziente è pronto per il weaning, DEVE ESSERE MESSO A RESPIRARE DA SOLO (o quasi) per circa mezzora facendo un trial di respiro spontaneo;
- al termine del trial di respiro spontaneo bisogna per forza decidere qualcosa: se il trial è riuscito, il paziente DEVE ESSERE LIBERATO DALLA VENTILAZIONE MECCANICA, se il trial è fallito si deve riprendere la ventilazione meccanica e riprovare il giorno dopo;
- ogni fallimento del respiro spontaneo deve essere visto solo come una tappa di avvicinamento all’obiettivo finale. Non deve diventare il pretesto per la rinuncia al weaning nei giorni successivi.
Puoi trovare qui una sintesi di evidenze e raccomandazioni sul weaning: Boles JM et al. Weaning from mechanical ventilation. Eur Respir J 2007; 29:1033-5.
Un caro saluto a tutti.
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