Ho letto recentemente un articolo che mi ha fatto riflettere molto. Quindi lo voglio condividere con gli amici di ventilab.
Gli autori, canadesi, hanno disegnato uno studio di coorte per determinare se esiste un’associazione tra età avanzata e mortalità nei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva (TI) per polmonite grave (1). Essi ritengono che per ricoverare un paziente in TI si dovrebbe tenere decisamente (“strongly”) conto dell’età qualora questa fosse indipendentemente associata alla mortalità.
Sono stati studiati 351 pazienti con polmonite ricoverati in TI entro 24 ore dall’arrivo in Pronto Soccorso. La mortalità a 30 giorni era del 10% nei pazienti con meno di 60 anni ed aumentava nelle fasce di età più avanzata arrivando al 30% nel gruppo di età superiore o uguale agli 80 anni. La mortalità ad un anno dal ricovero si elevava progressivamente con l’età, dal 19% al di sotto dei 60 anni al 57% al di sopra degli 80. L’età era indipendemente associata sia alla mortalità ad 1 mese (adjusted hazard ratio 1.24, CI 95% 1.03-1.49 per incrementi di 10 anni) che ad 1 anno (adjusted hazard ratio 1.39, CI 95% 1.21-1.60 per incrementi di 10 anni).
In altre parole, gli autori hanno dimostrato che nei pazienti dello studio ogni decade di aumento dell’età si associa ad un aumento della mortalità del 24% ad un mese e del 39% ad un anno.
Gli autori commentano che, alla luce di questi risultati, “i pazienti e le loro famiglie sceglierebbero di rinunciare a terapie intensive invasive, dispendiose e possibilmente futili, conoscendo la gravissima prognosi sia a breve che a lungo termine“.
La conclusione dell’articolo è che quindi le limitazioni al trattamento intensivo dettate dalla sola età “possono non essere irragionevoli”. E che i risultati dello studio possono essere utilizzati per supportare il peso che molti intensivisti attribuiscono all’età del paziente quando prendono decisioni cliniche.
Mi viene un dubbio: o io non ho capito bene il significato dello studio oppure esso sostiene che se una persona ha il 30% di probabilità di morire può non valere la pena di curarla in Terapia Intensiva. E che una persona preferirebbe morire piuttosto di farsi ricoverare in TI se sapesse di avere 2 probabilità su 3 di sopravvivere.
Beh, se così fosse, potremmo chiudere domani le Terapie Intensive. Infatti nei pazienti ricoverati in TI la mortalità alla dimissione ospedaliera è di circa il 30% (2): quindi il paziente medio ha circa il 30% di probabilità di morte.
Non voglio avventurarmi in discussioni di etica, che purtroppo vengono regolarmente strumentalizzate da tutte le parti. Preferisco semplicemente fare il medico e ricordare l’articolo 3 del Codice di Deontologia Medica: “Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera.”
Sicuramente esiste l’esigenza di rendere la cura umana e proporzionata. Ma articoli come quello discusso oggi non ci aiutano in questo, anzi ci possono trarre in inganno. Spesso invito gli amici che lavorano con me ad imparare a leggere criticamente la letteratura scientifica. Penso che in questo caso questo sia più utile cha mai.
A presto. E torneremo a parlare di weaning, ARDS, BPCO e ventilazione meccanica.
1) Sligl WI et al. Age stil matters: prognosticating short- and long-term mortality for critically ill patients with pneumonia. Crit Care Med 2010; 38:2126-32.
2) GiViTI. Progetto Margherita 2. Terapie Intensive Polivalenti. Rapporto 2009.
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